Il colpo di Stato di Gheddafi del 1969, l’espulsione e l’espropriazione di circa ventimila cittadini italiani fino ai contrasti attuali sui flussi migratori. Tutte ferite che fanno fatica a guarire. È ancora vivo, in particolare, il ricordo delle molte famiglie italiane che, dopo la creazione della Repubblica araba di Libia, furono costrette a lasciare precipitosamente il Paese abbandonando tutto quello che avevano realizzato.
Una testimonianza particolarmente preziosa di questa fase cruciale e tuttora irrisolta nelle relazioni tra Italia e Libia è quella della giornalista Mariza D’Anna che in un libro pubblicato recentemente, Il ricordo che se ne ha, racconta la storia della propria famiglia. Una famiglia siciliana che sin dagli anni Trenta si trasferisce in Libia dove, crea una florida azienda agricola, sposta il proprio baricentro in Nord Africa e poi nel 1970 è costretta a tornare in Italia, gettando al vento decenni di lavoro, di esperienza, di ricchezza. Lo spettacolo, che porta lo stesso titolo del libro, vuole tradurre in suoni e in immagini il senso etico e storico di questa vicenda esemplare.
Guido Barbieri
Questa storia giunge dal mare, un ricordo trasportato da un vento di Scirocco. Un vento che valica il Mediterraneo e accompagna la storia di questa famiglia ripercorrendone gli avvenimenti, le emozioni, i luoghi del cuore e dei sentimenti, i dolori e l’abbandono. I personaggi evocati e i luoghi descritti dal libretto tratteggiano esotismi sospesi.
Dallo sperone di roccia più alto di Lampedusa, nelle giornate terse di primavera, si intravede la linea azzurra della costa di Bengasi. Il luogo del ricordo è Biar Miggi, Una contrada di Tarhuna, a un centinaio di chilometri da Tripoli, durante gli anni del colonialismo italiano. L’azienda agricola del nonno della protagonista è la concretizzazione di un sogno, quello di un ricco imprenditore siciliano e del suo fattore veneto. Insieme riescono a trasformare un angolo sperduto di deserto in un luogo dell’anima. Sabbia che accoglie, nel tempo, distese di alberi di pistacchi, ulivi, mandorli e vigneti. Con dedizione scavano pozzi, spietrano speroni di deserto, edificano un baglio siciliano in terra d’Africa. Ma il racconto è anche un continuo rimando storico. Sono pagine crude, dal racconto del genocidio di massa, della deportazione di popolazioni ribelli della Cirenaica, fino al colpo di Stato operato dal capitano Muammmar Gheddafi. Uno stravolgimento che si traduce in frotte di coloni italiani che si imbarcano, forzatamente, per un viaggio di ritorno, definitivo. Esuli costretti a lasciare quella che è ormai la loro patria con il ricordo che se ne ha.
Come crude sono le pagine del poeta libico Rajab Abyhweish, artista che diede vita, in un campo di concentramento di El-Aghelia, al poema “Il mio solo tormento”. Stralci di queste liriche diventano materiale musicale vivo che dialoga con elaborazioni da ninne nanne araba e siciliane.
L’opera termina con Daniza, la giovanissima figlia della protagonista la cui immagine nella scena finale si sovrappone ad un’altra per noi tristemente nota: quella di uno dei tanti profughi che tentano di giungere sino a noi attraversando il medesimo mare, seguendo il medesimo vento, in un viaggio che sembra ripetersi inesorabilmente, traslato nel tempo e nello spazio, ma con lo stesso bagaglio di ricordi e di emozioni.
Carla Magnan e Carla Rebora